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"Un disastro umanitario fare guerra a Kabul"
Grifoni, vicepresidente di Medici senza frontiere, su la Stampa del 18.09.2001

UN attacco di terra in Afghanistan sarebbe un disastro umanitario, "inerpicarsi su quelle montagne con carri armati e battaglioni costerebbe decine di migliaia di vite agli afghani inermi, ma anche agli Stati Uniti". Riccardo Grifoni, chirurgo e vicepresidente di "Medici senza frontiere", conosce quei monti e quelle fortezze e, delle guerre, l'altra faccia: morti e feriti. Tra il '99 e il 2000 è stato otto mesi a Feyzabad, nel Badakhshan, cuore dell'Afghanistan del Nord guidato da Ahmed Shah Massud, il comandante morto l'altro giorno dopo l'attentato fondamentalista. Il medico ha lavorato nei campi e sfiorato il Leone del Panshir, "un uomo a cui la gente voleva bene". Conosciuto un paese "poverissimo", "del tutto privo di sistema sanitario", "col primo tasso di mortalità extraafricano". Ora dice: gli errori dell'Occidente sono tanti. Su tutti: aver lasciato solo Massud. Ne eviti uno più grave: una guerra "che ucciderebbe afghani incolpevoli e manderebbe a morire altre migliaia di giovani americani".

È impossibile non immaginare una reazione.
"Sì, ma ce ne sarebbe una molto più indolore: infiltrare l'organizzazione di Bin Laden e colpirla assieme al suo capo. Quando ero a Feyzabad mi sono accorto che i Taleban infiltrano sistematicamente la gente che li combatte. È credibile che l'intelligence Usa non riesca a fare lo stesso con Al Qaeda e catturare, o uccidere, Bin Laden?".
L'Afghanistan che lei ha conosciuto presterebbe uomini per questo compito?
"Lo avrebbero fatto i seguaci di Massud e non solo loro, ma gli Usa li hanno lasciati soli. Il presidente del Nord, Rabbani, mi disse che quando andò in Europa a chiedere aiuto fu praticamente ignorato".

In che condizioni è l'Afghanistan che ha visto?
"Hanno il più alto tasso di mortalità materna Africa esclusa, 1700 morti ogni centomila persone. Non arrivano al primo compleanno 165 bambini su mille. Non hanno servizio sanitario ma solo l'aiuto di organizzazioni volontarie come "Medici senza frontiere", che opera in diverse basi: nel Nord a Feyzabad, dov'ero io, a Baharak, a Eshkashem, nel Panshir. E poi a Kabul, Kandahar, Herat. Dopo l'Angola sono la nazione più minata, purtroppo trovi i resti di bombe prodotte anche da aziende italiane: ogni giorno curavo gente con le piaghe per nuovi scoppi, ci sono dalle dieci alle cinquanta mine per chilometro quadrato, una ogni due persone. Sono poverissimi, inutile dirlo".


Lo spettro della Cecenia
Adriano Sofri su la Repubblica del 18.09.2001


Vi ricordate della Cecenia? La gente cecena, che è già la più martoriata del mondo, può finire ora definitivamente disprezzata e schiacciata. Disperando d'altro, proverò a scrivere due pagine, e voi provate a leggerle. Due pagine appena: i ceceni, sapete, erano meno di ottocentomila prima delle due guerre che hanno affrontato in sette anni. Fra i 150 e i 200 mila sono morti. I 250 mila sopravvissuti sono profughi in campi miserabili nei paesi vicini. Il territorio del paese è più piccolo dell'Abruzzo.

Ora Putin … si è affrettato a sottolineare che i russi conoscono bene il nemico terrorista, cioè i ceceni. Tira l'acqua al suo mulino. Ha ragione? I ceceni sono terroristi islamisti? Dirò quella che mi sembra la difficile verità.
La Cecenia occupata da 90.000 militari russi ha oggi il governo fantoccio del Mufti AhmadHadji Kadyrov. Ha poi i resistenti, che vivono alla macchia e combattono contro gli occupanti. Essi sono divisi in molti gruppi locali, ma soprattutto, politicamente, in due schieramenti. Uno si riconosce in un militare che fu eletto nel 1997, in elezioni regolari controllate da inviati dell'Osce, presidente della Repubblica cecena: è Aslan Maskhadov. È un cinquantenne di proverbiale equilibrio. L'altro schieramento, meno numeroso ma più agguerrito, è guidato da Shamil Basaev, 36 anni, combattente leggendario, il quale aveva ravvivato l'antico sogno di un'indipendenza dei popoli del Caucaso la Federazione della Montagna - che li avrebbe uniti senza riguardo alle differenze di religione, dall'Abkhazia sul Mar Nero al Daghestan sul Caspio.
Dopo la prima guerra (199496), che ne aveva fatto l'eroe popolare dei ceceni e il nemico numero uno dei russi, Basaev si indusse a concorrere per la Presidenza, fu battuto da Maskhadov (la gente venera i giovani eroi impazienti ma vota per i maturi e affidabili dirigenti), gli si affiancò brevemente come primo ministro. Si ritirò poi per ricomparire nell'agosto del 1999 alla testa di un malaugurato e violento (e ancora dubbio) tentativo di far insorgere il Daghestan, sotto la bandiera della guerra santa islamista, e al fianco di un altro famoso combattente, Khattab, un arabo saudita dalla biografia e dalla fede simile a quella di Bin Laden. La demenziale impresa daghestana, accompagnata da una sequela di loschi attentati a Mosca, diede ai russi il pretesto atteso per la seconda invasione della Cecenia

Il governo russo ha fatto della Cecenia una metodica e brutale terra bruciata. Ha dato carta bianca a mercenari ubriachi e criminali tolti dalle galere. Ha irriso la condanna del Consiglio d'Europa, in cui era stata ammessa nel 1996. Le sue truppe hanno ucciso, violentato, deportato, torturato, ignorando qualunque obiezione rarissima, flebilissima - della comunità internazionale e rara ma spesso nitida e coraggiosa - dei difensori russi dei diritti umani e della dignità della loro patria. Ha rifiutato ogni riconoscimento e negoziato con la legittima autorità di Maskhadov. Il quale si trova in una morsa oggi ancora più stretta dalla moltiplicazione di pretesi governi ceceni in esilio, e soprattutto dall'ira del mondo contro il terrorismo islamista. La causa cecena non è mai stata così impopolare. Il petrolio del Caspio mai così popolare.

Si è parlato molto di Bin Laden e dei talebani sostenuti e addestrati attraverso il Pakistan dagli Stati Uniti quando si trattava di opporsi agli afghani filosovietici. Ebbene, al momento dell'invasione dell'Afghanistan, i russi mandarono in prima linea, come tante altre volte, proprio i ceceni, compreso quel Dudaev che, prima di proclamarsi presidente della Cecenia e di essere assassinato da un missile russo, fu un prode aviatore in quella guerra, poi, da generale e governatore sovietico dell'Estonia, rese onore alla bandiera nazionale di quel paese aspirante a liberarsi del dominio di Mosca. Basaev, venuto da un umile villaggio di montagna, Vedeno (è diventato il posto più bombardato del mondo), aveva studiato a Mosca, ed era poco più che ventenne quando si conquistò la gloria militare a capo del "battaglione abkhazo" per la difesa di quell'altra minuscola e meravigliosa terra contro la Georgia. Prima di illustrarsi ancora in clamorosi sequestri di aerei e di intere città in territorio russo, come a Budyonnovsk, gli capitò perfino di essere chiamato, coi suoi più fidi, a curare la guardia del corpo di Eltsin. Fu lui a espugnare Grozny nel 1995. Oggi appartiene all'alleanza islamista che ha nel bieco Afghanistan dei talebani il retroterra provvisorio. Khattab, arabo saudita (ma giordano di origine), e ricco, aveva studiato in America, si era conquistato un credito di guerriero in Afghanistan, lo aveva raddoppiato, dopo il 1995, in Cecenia però mal sopportato dalla maggioranza dei combattenti ceceni, per l'arroganza vanesia e il fanatismo religioso - battendosi contro i russi, e aspettando, come mi disse, il momento in cui unire tutte le forze contro gli Stati Uniti e il sionismo.


"La Cia annienterà i terroristi"
Woolsey su la Repubblica del 18.09.2001

WASHINGTON - James Woolsey è stato direttore della Cia con Bill Clinton, dal 1993 al 1995. Woolsey è gentilissimo e brusco, un uomo di quelli che vanno diritto al nocciolo della questione senza avere paura delle parole che usa, anche se quelle parole sono "annientare", "terminare" ("ending"). Le sue convizioni sono esplicite. Tra le sue convinzioni, una è più esplicitamente netta di altre: gli Stati Uniti rovesceranno, nel tempo necessario, i regimi di Kabul e di Bagdad, si libereranno per sempre di Omar e Saddam. Con l'intelligence e soprattutto con la rivolta sociale. Il segretario di Stato Colin Powell sostiene che si prepara una "guerra di spie". Cos'è una "guerra di spie"? "Le spie avranno un ruolo essenziale. Di penetrazione e infiltrazione dei gruppi terroristici. Nel '99 ci siamo riusciti e sventammo molti attentati. Poi degli insensati tagli al bilancio hanno impedito alla Cia di fare il suo lavoro al meglio". Sembra un alibi per la debacle dell'intelligence dell'11 settembre. "E' un fatto, non un alibi. Alla Cia è stato imposto per legge di non reclutare, nei gruppi terroristici, infiltrati che avessero le mani sporche di sangue. E' una legge senza senso. E' come imporre all'Fbi o alla polizia italiana di lavorare sulla mafia impedendole la collaborazione di mafiosi assassini. Ma presto questa legge finirà in soffitta". Vuol dire che la Cia avrà licenza di usare e far usare violenza? "Dopo quel che ha detto il vicepresidente Cheney, credo proprio di sì, se la violenza dovesse rendersi necessaria".

Paul Wolfowitz, il vice-ministro della Difesa, sostiene che bisogna "ending", "terminare", gli Stati che sostengono Bin Laden. Che significa "terminare"? "Avrei usato un'altra espressione. Avrei detto "terminare" i regimi, più che gli Stati. Non ce l'abbiamo con il popolo afghano o iracheno, che meritano governi migliori di quelli che hanno. E' per questo che cerchiamo la collaborazione di quei popoli". Queste sono le strategie di fondo, ma quale potrà essere domani, dopodomani la risposta militare? "I cinesi dicono che la vendetta è un piatto che si mangia freddo. Ma noi non cerchiamo vendetta, ma giustizia. La nostra risposta non sarà rapidissima. Non faremo l'errore di cercare di colpire quei regimi con una soluzione militare immediata. Cercheremo di rovesciarli. E questo richiede del tempo.

Osama Bin Laden ha negato ogni coinvolgimento nel "martedì di sangue". Questa dichiarazione impone agli Usa una più rigorosa documentazione delle responsabilità dello sceicco? "Chiunque creda alle parole di Osama Bin Laden è fuori di testa. E' perduto alle ragioni della salute mentale".


Il confine della libertà
Angelo Panebianco su Corriere della Sera del 18.09.2001

Tra le vittime delle guerre, oltre agli esseri umani, c'è, spesso, la libertà.

Anche in una guerra non convenzionale come quella che si è aperta l'11 settembre, contro una galassia terroristica presumibilmente sostenuta dagli apparati di alcuni Stati, la questione di che cosa accadrà nei prossimi anni alle nostre libertà, si pone.

Il vero rischio è che l'Occidente, questa guerra, la perda comunque . Se resta ciò che i suoi principii ne hanno fatto, un insieme di società aperte, libere e tolleranti, può non essere capace di difendersi, può continuare ad essere un facile bersaglio, può regalare altre vittorie militari al nemico. Se sceglie di abbandonare, almeno in parte, i principii della società aperta, diventando più chiuso e autoritario, l'Occidente può accrescere la sua sicurezza, ma corre il rischio di regalare ai nuovi barbari la vittoria su un altro terreno: accettando di diventare un po' come loro, perdendo quella superiorità morale che, pur con i suoi mille difetti, possiede in quanto terra delle libertà, rispetto ad ogni altro sistema socio-politico esistente, per non parlare delle spaventose utopie totalitarie che i nuovi barbari propongono. Come salvare il più possibile della civiltà liberale creando contemporaneamente sistemi di protezione a maglie strette, è forse, fra i dilemmi che l'Occidente dovrà affrontare, il più difficile.

Intanto in Italia
Furio Colombo su l'Unità del 18.09.2001

Il mondo sta attraversando giorni oscuri. Storie di salvezza portano commozione, storie di solidarietà ridanno speranza, il caos delle Torri distrutte dal terrorismo sta diventando il simbolo di un immenso disordine mondiale.
Tutti, dovunque, sono col cuore in gola.
Ma ci sono storie italiane che raccontano di un mondo piccolo e crudele, di manie ossessive e un po' psicotiche che sarebbero modesta cronaca locale se questi non fossero i giorni di una tragedia.
Sono storie che ricordano altre storie di una Repubblica fondata sull'opportunismo, sul tornaconto e sulla celebrazione di se stessi (i buoni, i migliori) che, dati i tempi, appare penosa.
Decine di migliaia di morti in un Paese grande e amico, non smuovono di un millimetro la piccola testa della Lega.
Bossi, dopo avere giocato con l'acqua del Po dichiara che due ex primi ministri della Repubblica sono "nemici dello Stato".
Fa la voce grossa, da ministro, verso un magistrato che indaga sui suoi reati.
Dice, probabilmente riferendosi alla tragedia americana, che "noi (la Lega) lo sapevamo prima". Il mondo è caritatevole, in tempi come questi nessun giornale internazionale gli dedicherà una riga.
È caritatevole anche la stampa italiana che ne parla ben poco o presenta il carnevale un po' osceno, dati i giorni in cui si festeggia, come se fosse un evento normale. (...)

"Contro il terrorismo islamico la vera arma è la politica"
Stefano Silvestri su l'Unità del 18.09.2001

"In questa battaglia contro il terrorismo globalizzato, l'aspetto militare può incidere del 10-15% rispetto ad una incisiva, pressante, coordinata azione politico-diplomatica ed economica. Certo, l'obiettivo minimo per gli Usa è quello di catturare o eliminare i mandanti dei sanguinosi attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, e questo può anche essere raggiunto con un intervento militare, ma l'obiettivo strategico resta quello di dare un colpo forte al terrorismo internazionale e questo può essere ottenuto solo con l'arma della politica, cercando di indebolire il terrorismo internazionale nel suo vero elemento di forza: le coperture e gli aiuti che riceve da alcuni Stati". A sostenerlo è una delle massime autorità nel campo degli studi di strategia militari e relazioni internazionali: il professor Stefano Silvestri, vice presidente dell'Istituto Affari Internazionali (Iai).

Quali esempi è possibile fare, professor Silvestri?
"Pensiamo al Pakistan. Un alleato degli Usa ma anche un Paese che finora ha offerto un fondamentale supporto logistico e di intelligence al regime teocratico di Kabul. Ma in ballo c'è anche l'Arabia Saudita, altro prezioso alleato Usa, basti ricordare la Guerra del Golfo del 1991, ma è da Riad che provengono buona parte dei finanziamenti ai gruppi del radicalismo islamico armato, a cominciare da quelli coordinati da Bin Laden. Si tratterà di convincere questi Paesi, i regimi che li governano a cambiare decisamente politica ma non credo proprio che ciò potrà essere fatto con un intervento militare. Si tratterà invece di esercitare forti pressioni politiche e, nel caso del Pakistan, economiche per spezzare quella fitta reti di connivenze e di concreto sostegno che, lo ripeto, rappresenta il vero punto di forza del terrorismo internazionale".


La discussione sul coinvolgimento italiano
Su Polix del 18.09.2001

Ha cominciato Giulio Andreotti: prima in una intervista radiofonica, poi in Commissione, l'ex ministro degli esteri ha voluto esprimere tutti i suoi dubbi sulla "adattabilità" dell'articolo 5 alla serie di attentati di martedì 11. "Per applicare l'articolo 5 in questo caso bisognerebbe modificare il patto atlantico con tutte le procedure necessarie", ha detto Andreotti. "Dobbiamo stare molto attenti, perché si rischia di dare al terrorismo la legittimazione di forza belligerante, e possono esserci conseguenze gravi. In guerra diventa legittimo sparare, e ricordiamoci che la nato ha migliaia di soldati in missione in paesi difficili".
Secondo Andreotti "se siamo di fronte al terrorismo il problema va affrontato con altri mezzi, con le polizie internazionali. E poi resto convinto che il vero modo di rispondere al terrorismo è quello di far funzionare la politica e di dare ruolo alle Nazioni Unite le cui decisioni nel corso dei decenni sono purtroppo rimaste inattuate".

"Ascoltare Andreotti è sempre affascinante", ha detto dal canto suo Gustavo Selva, presidente della Commissione Esteri della Camera. "Ma occorre ricordare che l'articolo 5 del trattato Nato appartiene alle logiche degli eserciti della prima o della seconda guerra mondiale, quando le guerre venivano dichiarate e venivano persino rispettate delle pause natalizie".
Oggi, secondo il parlamentare di An, "è cambiato il modo di fare la guerra, perché quello agli Stati Uniti è un atto di guerra che ha prodotto la maggiore perdita di vite umane nel territorio degli Stati Uniti. E' chiaro che anche gli adattamenti formali saranno necessari, ma il più importante è la sostanza, il fatto che per la prima volta muoiono migliaia di persone in un attacco di questo tipo".

Altri interventi:
Francesco Martone, dei Verdi
Elettra Deiana, di Rifondazione Comunista
Valdo Spini (che ha presieduto la Commissione Difesa nella scorsa legislatura) dei DS
Il senatore Provera, della Lega Nord
Gavino Angius, dei DS
Il ministro della difesa tedesco Rudolf Scharping

Hollywood in lutto
su l'Espresso del 18.09.2001

Prime rimandate, sceneggiature riscritte, progetti accantonati.I kamikaze di Bin Laden hanno colpito anche la fabbrica dei sogni. Che mette al bando pellicole a base di grattacieli e terrorismo. Dall'Uomo Ragno a Sean Connery, ecco tutti i film che non vedremo, almeno per ora

Berlusconi: finanziaria straordinaria
Su il Nuovo del 18.09.2001

Il mix di congiuntura internazionale e maggior spesa "per difesa e intelligence" fa annunciare al premier la necessità di una manovra 2002 più pesante del previsto. "Ma non ci saranno aumenti fiscali".

Stime ufficiali ancora non se ne fanno. Ma al Tesoro c'è chi parla di almeno 5 mila miliardi di appesantimento della manovra 2002, che potrebbe passare dagli "originari" 25 mila miliardi a quasi 30 mila. L'obiettivo  dichiarato resta quello di portare il rapporto deficit/pil allo 0,8% come previsto dal Patto di stabilità. Molto dipenderà ovviamente dall'andamento dei conti 2001. Non è un mistero che per varare una finanziaria "morbida" il Governo facesse affidamento su una crescita del Pil del 3% nel 2002 e del 2,3% per quest'anno. Ma le conseguenze dell'attacco agli Usa fanno rivedere ora al ribasso di uno 0,7-0,8% le stime per il prossimo anno e rendono meno credibili persino le previsioni per il 2001.


Taormina difende un boss
Su la Repubblica del 18.09.2001

Palermo - Nonostante le polemiche e le "promesse", il sottosegretario agli Interni Carlo Taormina continua a difendere imputati, anche di mafia.
Ieri mattina, con tanto di scorta di agenti della polizia di Stato, Taormina si è presentato nell'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo per difendere un presunto capo mafia agrigentino, Giuseppe Simone, che ha chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato.
L'attività di avvocato dell'onorevole Carlo Taormina ha provocato polemiche subito dopo la sua nomina a sottosegretario agli Interni. Il "caso" era scoppiato quando si era appreso che il neo sottosegretario aveva continuato ad assistere il boss della Sacra Corona Unita Francesco Prudentino. Le opposizioni presentarono interpellanze parlamentari sostenendo l'incompatibilità tra i due incarichi, quello di avvocato e quello di sottosegretario agli Interni. Sulla vicenda era intervenuto anche il ministro degli Interni, Claudio Scajola, affermando che Taormina doveva decidere se continuare a fare l'avvocato o il sottosegretario perché le due cose erano incompatibili.
Taormina aveva promesso che non avrebbe più accettato difese che sarebbero stati in contrasto con gli interessi dello Stato. Ma Taormina ha ancora fatto parlare di sé nelle settimane scorse, quando si era appreso che avrebbe assunto la difesa di Vincenzo Canterini, il capo del reparto mobile di Roma indagato nell'ambito dell'inchiesta della procura di Genova sull'irruzione alla scuola Diaz durante il G8. Taormina rinunciò a quell'incarico.

"Certo non è molto bello - dice un magistrato della Procura di Palermo - trovarsi davanti un sottosegretario agli Interni nelle vesti di un avvocato che difende un presunto mafioso. Nessun timore, per carità, ma molto imbarazzo sicuramente sì".



  18 settembre